La nuova infrastruttura del potere si chiama Intelligenza artificiale

Benvenuti nell’era della nuova energia che muove il mondo: l’Intelligenza artificiale. Non un semplice strumento digitale, ma una vera e propria centrale elettrica del XXI secolo, capace di generare potenza in ogni settore, dall’industria ai servizi, dalla finanza alla vita quotidiana. Dove arriva, illumina e accelera processi; dove manca, lascia indietro interi Paesi, generando bassa crescita, recessione e disuguaglianze.

Un’energia che divide

Gli Stati Uniti investono in IA oltre cinque volte più dell’Europa. Mentre la Vecchia Europa resta legata al suo modello manifatturiero, il resto del mondo corre verso la nuova elettricità. La conseguenza? Una società a due velocità: chi ha competenze e strumenti adeguati accende la luce, chi resta senza formazione si trova al buio. Un vero apartheid digitale che rischia di allargare il divario sociale.

Non basta collegare la spina

L’IA non è una lampadina che si accende con un interruttore. Uno studio del MIT ha mostrato come oltre il 90% dei progetti di intelligenza artificiale generativa sia fallito: manager pronti a installare centrali senza ripensare impianti e flussi di lavoro. Il risultato? Blackout aziendali, processi bloccati, risorse sprecate.
Per funzionare, serve una rete ridisegnata: competenze, processi, regole. Non improvvisazione.

Non è Prometeo, è un generatore

L’IA non sogna, non ha desideri, non arde di ambizione. Elabora dati, ripete schemi, apprende dai contesti. Non è la creatività di un artista né l’istinto di un leader: è una potentissima macchina di calcolo. Per questo il tema diventa politico: chi governa questa energia governa l’economia globale, il mercato dei dati e la competitività dei Paesi.

Tre parole chiave: consapevolezza, visione, governance

Il futuro dipenderà da tre fattori:

  • Consapevolezza, perché non basta installare server e algoritmi senza ridisegnare la rete organizzativa.

  • Visione, perché la società si trasforma in una smart grid globale, in cui ogni comportamento sarà influenzato da reti di dati e modelli predittivi.

  • Governance, perché l’IA non si autogestisce: servono regole per stabilire chi resta illuminato e chi rischia l’oscurità.

L’Europa e la sfida globale

L’AI Act europeo è un primo passo, ma appare ancora come una prolunga domestica davanti a una tempesta planetaria. Il tavolo della governance deve includere Stati Uniti e Cina, altrimenti i cortocircuiti saranno inevitabili.


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Cambio al vertice dell’Ordine degli avvocati di Roma: Graziani nuovo Presidente

Un incarico che accolgo ringraziando i Colleghi che mi hanno scelto ma anche con forte senso di responsabilità – le parole del nuovo Presidente – consapevole dell’importanza del mandato, dell’impegno ereditato dai miei predecessori Paolo Nesta e Antonino Galletti e delle molte iniziative che l’Avvocatura romana porterà avanti nei prossimi mesi“.

Diversi i temi trattati in questi ultimi tre anni di consiliatura, su tutti quello dell’equo compenso per i professionisti, che ha visto l’Ordine forense impegnato in prima linea non solo a Roma ma in tutta Italia; e la tutela dei diritti dei reclusi, “che rappresentano – spiega Graziani – l’unità di misura con cui valutare il grado di civiltà di uno Stato di diritto e che vede il nostro Paese purtroppo ancora indietro su tale percorso. Penso al dramma dei suicidi in carcere, solo ieri il più recente: una donna che si è tolta la vita a Rebibbia. Ecco, questo è un dramma sul quale molto dobbiamo fare: accendere un faro per illuminare una situazione che troppo spesso viene dimenticata, relegata nelle brevi di cronaca. Ma la vita di una persona, la sua dignità, non sono questioni secondarie. La rieducazione del detenuto non può restare lettera morta e le persone recluse non possono essere trattate alla stregua di polvere da nascondere sotto il tappeto del nostro quieto vivere“.

Ma non c’è solo questo. “Con Paolo Nesta e Antonino Galletti molto abbiamo fatto in passato per denunciare gli intollerabili ritardi della Giustizia, a cominciare da una giusta collocazione del Giudice di Pace e, conclude Graziani, dalla gestione dell’impatto dell’intelligenza artificiale sulle attività giudiziarie e degli Avvocati. Posso garantire che la nostra iniziativa procede intensamente. Tribunali efficienti e con organici adeguati nonché udienze fissate in tempi ragionevoli sono essenziali per restituire ai cittadini la fiducia nella Giustizia. Va benissimo occuparsi di separazione delle carriere dei magistrati e di grandi riforme ma gli Ordini forensi devono scendere in campo anche sulle questioni che più stanno a cuore agli Avvocati e ai cittadini: vedere un’udienza fissata dopo tre o quattro anni non è dignitoso: ciò costituisce vera e propria negata Giustizia. Dunque, molto c’è da fare e l’Ordine forense della Capitale non si tirerà indietro“.


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Nordio a Cernobbio: «Il caso Tortora sia una lezione per i giudici»

CERNOBBIO – Alla platea del Forum Ambrosetti, Carlo Nordio non ha risparmiato parole forti. Il Guardasigilli ha ricordato la vicenda di Enzo Tortora – arrestato nel 1983 sulla base di accuse infondate, costretto a 271 giorni di carcerazione preventiva e assolto solo quattro anni dopo – come simbolo degli errori giudiziari che non devono più ripetersi. «Un magistrato che manda in carcere un innocente non deve pagare con il portafoglio, ma con la carriera: deve cambiare mestiere», ha scandito il ministro, proponendo di utilizzare la nuova serie tv dedicata a Tortora come strumento di formazione obbligatoria per i futuri giudici.

Nordio ha ribadito che la carcerazione preventiva «è sempre un fardello di dolore per chi la subisce» e va evitata ogni volta che esistono alternative. Un principio che – sostiene – avrebbe impedito anche le contestate misure cautelari di Milano, con arresti annullati poche ore dopo dal tribunale della Libertà.

Sul fronte delle riforme, il ministro ha rilanciato la “madre di tutte le battaglie”: la separazione delle carriere. La revisione costituzionale, attesa per l’autunno in seconda lettura alla Camera e poi al Senato, sarà sottoposta a referendum confermativo nella primavera 2026. «Sarà un cambiamento radicale – ha detto – perché smantellerà il potere delle correnti, restituendo credibilità alla giustizia disciplinare».

Il progetto prevede il sorteggio per l’elezione dei membri dei due Csm e dell’Alta Corte disciplinare, con l’obiettivo di eliminare quello che Nordio definisce «un sistema domestico, dove i magistrati giudicano i magistrati». L’Anm e buona parte delle toghe restano contrarie, paventando un attacco all’indipendenza della magistratura e una possibile saldatura con l’opposizione politica. «Sarebbe un disastro – ha replicato il ministro – se i magistrati trasformassero la consultazione in una campagna contro il governo».

Nordio ha anche rivendicato i primi risultati del Pnrr applicati alla giustizia: «Abbiamo ridotto del 27,7% i tempi delle cause civili grazie all’impiego delle risorse disponibili», ha sottolineato. E ha respinto le accuse di incoerenza da parte delle opposizioni: «Ci hanno criticato per leggi troppo dure, dalle norme sui rave a quelle sui reati sessuali. Ma non possono accusarci di immobilismo».


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Non si tratta solo di lavoro nero in senso stretto – che pure aumenta, da 6.565 a 6.801 addetti – ma soprattutto di rapporti formalmente attivati che violano norme su orari, mansioni e retribuzioni. A segnalare questa nuova frontiera dello sfruttamento sono i numeri: le sospensioni delle attività imprenditoriali sono salite del 66%, toccando quota 4.198, mentre le sanzioni hanno superato i 29,7 milioni di euro (+68%). Anche la sicurezza sul lavoro resta un tallone d’Achille: le ispezioni sono passate da 7.699 a oltre 10.800, con ammende che sfiorano i 27 milioni.

Il fenomeno riguarda in misura significativa i lavoratori stranieri. I controlli sugli extra-Ue hanno coinvolto quasi 19mila persone: 3.040 risultavano completamente in nero, mentre oltre 6.300 avevano contratti irregolari. Non mancano casi più gravi: i lavoratori clandestini scoperti sono aumentati da 534 a 834, con 19 espulsioni.

Ma l’irregolarità non si ferma nei capannoni industriali o nei campi agricoli: arriva fino alla documentazione che consente l’ingresso in Italia. Inchieste della magistratura hanno fatto emergere presunte compravendite di visti e nulla osta, con cifre fino a 15mila euro per documento. A Torino, ad esempio, un’agenzia pakistana avrebbe presentato decine di pratiche false presso Prefettura e Questura, mentre a Roma la Procura indaga su un presunto sistema illecito legato all’Ambasciata italiana in Bangladesh.

La rete dello sfruttamento si intreccia con subappalti opachi, falsificazione di richieste di asilo e persino con il commercio di merce contraffatta importata illegalmente. Settori come logistica, moda, sicurezza privata e agricoltura risultano particolarmente esposti.


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Nuove imprese e studi professionali, incentivi legati alla formazione

ROMA – La nuova stagione degli incentivi per il lavoro autonomo e le attività professionali si aprirà con un passaggio obbligato: la formazione. Per accedere ai fondi del programma “Resto al Sud 2.0” e della misura “Autoimpiego Centro Nord”, sarà necessario seguire percorsi da 60 fino a 200 ore, pensati per orientare i giovani nella scelta dell’attività e nella costruzione di un business plan solido.

Il pacchetto complessivo vale 800 milioni di euro, di cui 356,4 destinati al Mezzogiorno e 219,6 al Centro-Nord. I destinatari sono i giovani tra i 18 e i 35 anni, disoccupati o con redditi minimi, che vogliono avviare un’attività professionale o imprenditoriale, sia in forma individuale che societaria.

Tre le tipologie di contributo previste: voucher da 30mila euro (aumentabili a 40mila per spese tecnologiche), finanziamenti per programmi fino a 120mila euro con copertura pubblica del 65%, e investimenti più complessi fino a 200mila euro, di cui 78mila a fondo perduto. Non si tratterà di un “click day”: le domande saranno valutate da Invitalia, che seguirà anche l’istruttoria e il monitoraggio.

Il Ministero del Lavoro, insieme ad Invitalia, all’Ente nazionale per il microcredito e a Sviluppo Lavoro Italia, sta definendo tempi e modalità operative. Una parte delle risorse – circa 100 milioni provenienti dal Pnrr – dovrà essere utilizzata entro giugno 2026, imponendo un’accelerazione nelle procedure.

La precedente edizione di “Resto al Sud” aveva registrato risultati significativi sul fronte imprenditoriale (20mila progetti avviati per oltre 1,3 miliardi di investimenti), ma un impatto molto limitato tra i professionisti, con appena 600 progetti finanziati. Per questo la nuova formula punta a rafforzare l’accompagnamento dei beneficiari, combinando formazione, tutoraggio e supporto nella fase di start-up.

«Il nostro obiettivo – spiega il presidente dell’Ente nazionale per il microcredito, Mario Baccini – non è solo facilitare l’accesso al credito, ma accompagnare i giovani verso l’autoimpiego e l’imprenditorialità, fornendo competenze reali per affrontare il mercato». La formazione non sarà obbligatoria, ma garantirà punteggi aggiuntivi nelle graduatorie, premiando chi deciderà di seguire i corsi.


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Pnrr, cinque ministeri arrancano: speso meno del 30% delle risorse

ROMA – Il Piano nazionale di ripresa e resilienza procede, ma a velocità diverse. Se da un lato enti locali e imprese hanno mostrato capacità di spesa in crescita, dall’altro cinque ministeri chiave restano indietro. È il caso del Lavoro, dell’Agricoltura, del Turismo, della Cultura e della Salute, che a fine giugno risultavano al di sotto del 30% nell’utilizzo dei fondi assegnati.

A dirlo sono i dati diffusi dal portale governativo Italia Domani ed elaborati da Ifel (Istituto per la finanza e l’economia locale dell’Anci). Il quadro mette in evidenza ritardi consistenti, con il dicastero del Lavoro – guidato da Marina Calderone – fanalino di coda: appena l’11,8% della dotazione spesa. Un po’ meglio l’Agricoltura, ferma comunque al 14,5%. Anche Turismo, Cultura e Salute mostrano andamenti lenti e preoccupanti.

Il contesto generale, però, racconta un’accelerazione negli ultimi mesi. Secondo le rilevazioni, al 31 maggio i pagamenti effettivi ammontavano a 74,3 miliardi, pari al 38,3% della dotazione totale di 194,4 miliardi. Considerando la progressione registrata nei mesi successivi – circa 3 miliardi di euro di spesa aggiuntiva ogni mese – le uscite complessive potrebbero oggi avvicinarsi a quota 100 miliardi.

Un passo avanti significativo, ma non sufficiente a nascondere la disparità tra i vari settori del Piano. Alcuni filoni, come quelli legati alle missioni energetiche e infrastrutturali, viaggiano a ritmo sostenuto. Altri, invece, arrancano per motivi che vanno dalla complessità dei bandi alla lentezza burocratica, fino a una difficoltà strutturale nel trasformare i progetti in cantieri e spesa reale.

Il ministro per gli Affari europei, Tommaso Foti, ha chiesto più volte report puntuali ai colleghi di Governo e alle Regioni per monitorare da vicino l’attuazione. La pressione è alta: entro la fine dell’anno l’Italia dovrà dimostrare a Bruxelles non solo di aver centrato obiettivi e milestone, ma anche di aver tradotto in spesa effettiva le risorse ricevute.

Il rischio, se i ritardi non verranno recuperati, è di compromettere l’efficacia complessiva del Pnrr e mettere in difficoltà la prossima rimodulazione dei fondi. In gioco non ci sono solo le statistiche, ma la capacità del Paese di trasformare l’occasione unica del Recovery in crescita duratura e riforme strutturali.


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Italia, il peso dei Neet: un giovane su sette senza futuro

In Italia c’è un esercito silenzioso che grava come un macigno sull’economia e sulla società: i Neet, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non seguono alcun percorso formativo. Sono 1,4 milioni, il 15,2% della popolazione giovanile, contro l’11% della media europea. Un dato che ci relega al penultimo posto nell’Unione e che tradotto in cifre pesa circa 25 miliardi di euro l’anno, pari all’1,23% del Pil.

La fotografia scattata da The European House – Ambrosetti non lascia spazio a interpretazioni: il fenomeno si concentra soprattutto tra le donne (69%), nel Mezzogiorno (46%) e tra chi ha un basso livello di istruzione (42%). A questi si aggiunge un altro numero allarmante: 453mila giovani sono del tutto inattivi, non cercano occupazione né partecipano ad alcuna attività di formazione.

«È come una manovra finanziaria che ogni anno bruciamo», ha osservato Valerio De Molli, managing partner della società di consulenza, lanciando un appello alle classi dirigenti: «Il futuro dei giovani è stato troppo a lungo trascurato. Serve un cambio di passo immediato».

Alla crisi dei Neet si somma la piaga della dispersione scolastica. In Italia quasi il 10% dei giovani tra i 18 e i 24 anni abbandona gli studi prima del diploma, pari a oltre 400mila ragazzi. Il fenomeno si aggrava tra i giovani stranieri: abbandona la scuola il 15% dei cittadini europei residenti in Italia e addirittura il 27,4% di quelli extra-Ue. Dati che, come ha ricordato anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, aprono la strada alla “povertà educativa” e all’emarginazione sociale, con il rischio di devianze e criminalità.

E mentre la base formativa si assottiglia, anche i laureati scelgono di partire: ogni anno oltre 37mila giovani lasciano il Paese, con un costo stimato di 5,1 miliardi di euro per la collettività. Un esodo che si accompagna a un altro primato negativo: solo il 31,6% dei giovani italiani ha un titolo universitario, ben lontano dalla media europea. Tra i giovani stranieri residenti in Italia la percentuale crolla al 13,4%, contro una media Ue del 37,9%.

A completare il quadro c’è il nodo dei salari: l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui i redditi medi reali sono diminuiti nell’ultimo ventennio. Un contesto che alimenta la fuga di competenze e rende sempre più difficile trattenere talenti e investire sulle nuove generazioni.


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Bruxelles stangata Google, Trump al contrattacco

Bruxelles mette nel mirino Big Tech e commina a Google una sanzione record: quasi tre miliardi di euro per pratiche anticoncorrenziali nel settore della pubblicità online. La Commissione europea accusa il colosso di Mountain View di aver sfruttato la propria posizione dominante per favorire i propri servizi pubblicitari a scapito dei concorrenti, danneggiando editori, inserzionisti e consumatori.

La decisione, firmata dalla vicepresidente dell’esecutivo comunitario Teresa Ribera, è arrivata al termine di un’indagine avviata nel 2021 e che, secondo Bruxelles, ha accertato condotte scorrette almeno dal 2014. “Google deve ora proporre rimedi concreti – ha dichiarato Ribera – perché i mercati digitali devono funzionare in modo equo, garantendo ai cittadini reali possibilità di scelta”.

Ma l’azienda californiana non ci sta: con una nota ufficiale, la vicepresidente Lee-Anne Mulholland ha definito la decisione “errata” e ha annunciato l’intenzione di impugnarla. Google ha ora 60 giorni di tempo per presentare le proprie controdeduzioni e illustrare come intende adeguarsi.

Se l’Europa ha voluto dare un segnale di fermezza, oltreoceano la reazione non si è fatta attendere. Donald Trump, tornato alla Casa Bianca con un’agenda fortemente protezionista, ha bollato la multa come “ingiusta” e ha minacciato l’introduzione di nuove tariffe commerciali ai danni dell’Ue. “Non possiamo permettere che la brillante ingegnosità americana venga colpita – ha tuonato il presidente – e, se necessario, avvierò un procedimento ai sensi della Sezione 301 per cancellare queste sanzioni”.

Lo scontro si inserisce in un contesto già teso nei rapporti transatlantici, con l’Unione europea divisa al proprio interno: alcuni commissari avrebbero preferito rinviare la decisione per non compromettere il dialogo in corso con Washington sui dazi. La linea dura, però, ha prevalso, aprendo un nuovo capitolo nella lunga partita tra Europa e giganti tecnologici americani.

Il braccio di ferro è appena iniziato. Da un lato Bruxelles, decisa a difendere concorrenza e trasparenza; dall’altro Google e gli Stati Uniti, pronti a rispondere con ricorsi e minacce commerciali. Sullo sfondo, miliardi di euro e il futuro stesso della regolazione dei mercati digitali.


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I contribuenti più tassati e più ricchi d’Italia risiedono a Milano

Al netto delle detrazioni[1] e degli oneri deducibili, nel 2023 i contribuenti italiani hanno dichiarato un’Irpef pari a 190 miliardi di euro. Questa imposta, ricordiamo, è la più importante in termini di gettito e vale circa un terzo delle entrate tributarie complessive. A livello territoriale il prelievo medio netto più elevato ha interessato i contribuenti della Città Metropolitana di Milano con 8.846 euro. Seguono le persone fisiche di Roma con 7.383, della provincia di Monza-Brianza con 6.908, di Bolzano con 6.863 e della Città Metropolitana di Bologna con 6.644.  I meno tartassati d’Italia sono stati i contribuenti della Sud Sardegna che hanno pagato solo 3.619 euro. La media nazionale è stata pari a 5.663 euro. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA che ha elaborato i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

In considerazione del fatto che il nostro sistema fiscale si fonda su criteri di progressività[2], è fondamentale evidenziare che le aree geografiche caratterizzate da un prelievo fiscale più elevato corrispondono, in linea di massima, a quelle con redditi più alti. Infatti, se analizziamo la graduatoria delle province italiane per reddito complessivo medio dichiarato, scorgiamo che la Città Metropolitana di Milano è la più ricca con 33.604 euro. Seguono i contribuenti di Bologna con 29.533, quelli di Monza-Brianza con 29.455, di Lecco con 28.879, di Bolzano con 28.780, di Parma con 28.746 e di Roma con 28.643. Tutte realtà territoriali che si contendono anche le primissime posizioni della classifica relativa al prelievo fiscale riconducibile all’Irpef. Infine, va segnalato che nei territori in cui l’imposta sulle persone fisiche è più elevata, solitamente si osserva una qualità/quantità superiore dei servizi pubblici offerti ai cittadini, quali trasporti, infrastrutture sociali, istruzione, cultura, sport e tempo libero.

  • Differenze di reddito Nord-Sud molto elevate

Sia per quanto riguarda il livello di reddito che di tassazione, lo scostamento tra Nord e Sud del Paese è molto rilevante. Si pensi che tra le 107 province monitorate in questa analisi dalla CGIA, la prima area geografica del Mezzogiorno per livello di prelievo Irpef e anche per quel che concerne il reddito complessivo medio è la Città Metropolitana di Cagliari che occupa rispettivamente il 25° (vedi Tab. 1) e il 46° posto (vedi Tab. 2). Inoltre, se stimiamo la percentuale di contribuenti sul totale regionale che dichiara un reddito complessivo inferiore a quello medio nazionale (pari nel 2023 a 24.830 euro), notiamo che le regioni del Mezzogiorno presentano dati molto preoccupanti. Se a livello medio nazionale la percentuale è del 65,9 per cento, tutte le regioni del Sud e delle Isole registrano una quota superiore al 70 per cento. La situazione più critica riguarda la Calabria, dove il 77,7 per cento dei contribuenti (pari a 919.009 persone fisiche) ha dichiarato meno della media nazionale (vedi Tab. 3).

  • Sono 42,5 milioni i contribuenti Irpef

Sono oltre 42,5 milioni i contribuenti Irpef presenti in Italia. Di questi, quasi 23,8 sono lavoratori dipendenti, 14,5 pensionati, 1,6 lavoratori autonomi[3] e 1,6 sono percettori di altri redditi. L’area che ne conta di più è Roma. Nella ex provincia capitolina ve ne sono quasi 3 milioni, a Milano 2,4, a Torino poco meno di 1,7, a Napoli 1,65 e a Brescia poco più di 941mila. Chiude la graduatoria nazionale la provincia di Isernia con oltre 59mila (vedi Tab. 4).

  • La pressione fiscale non scende

Nel Documento di Economia e Finanza del 2025, si stima una pressione fiscale per l’anno in corso del 42,7 per cento; un livello in lieve aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al dato del 2024. Tuttavia, è necessaria una puntualizzazione: va ricordato che la Legge di Bilancio 2025 ha sostituito la decontribuzione a favore dei lavoratori dipendenti con una analoga misura che combina gli sconti Irpef con il “bonus” a favore delle maestranze a basso reddito. Mentre la decontribuzione si traduceva in minori entrate fiscali-contributive, il “bonus” (che vale circa 0,2 punti percentuali di Pil) viene contabilizzato come maggiore spesa e quindi va ad “appesantire” la pressione fiscale. Pertanto, se tenessimo conto di questo aspetto, nel 2025 la pressione fiscale sarebbe destinata a diminuire, sebbene di poco, attestandosi comunque al 42,5 per cento.

  • Anzi, aumenta. Ma ha effetti solo statistici

Osservando il Graf. 1, l’incremento della pressione fiscale è tornato a salire con vigore a partire dal 2023. Tuttavia, affermare che in questi ultimi anni sia aumentato il prelievo del fisco sul contribuente sarebbe fuorviante. L’incremento della pressione fiscale, infatti, non è ascrivibile ad un aumento delle tasse, quanto a una pluralità di novità legislative di natura economica introdotte a livello politico.

Oltre a quelle richiamate poc’anzi, ricordiamo che il buon andamento delle entrate fiscali nel 2024 è stato determinato da fattori economici positivi che hanno condizionato la crescita delle imposte sostitutive attinenti ai redditi da capitale. Non va nemmeno dimenticata la crescita registrata dalle retribuzioni; grazie ai rinnovi contrattuali, alla corresponsione degli arretrati nel pubblico impiego e all’aumento del numero di occupati, l’Irpef e i contributi previdenziali hanno subito un rialzo positivo.

  • Le nuove tasse hanno causato un prelievo insignificante

L’impatto sulla pressione fiscale riconducibile all’aumento delle tasse provocato dal governo Meloni non ha inciso in maniera determinante. Ricordiamo, tra i principali inasprimenti fiscali introdotti dal governo in carica, le seguenti misure:

– incremento della tassazione sui tabacchi, dell’IVA su alcuni prodotti per l’infanzia/igiene femminile e dell’imposta sostitutiva sulla rivalutazione dei terreni e delle partecipazioni per l’anno 2024;

– rimodulazione delle detrazioni per le spese fiscali con l’introduzione di alcune limitazioni per redditi elevati, l’inasprimento della tassazione sulle cripto-attività, la riduzione delle detrazioni delle spese per le ristrutturazioni edilizie e il risparmio energetico per l’anno 2025.

[1] Per familiari a carico, da lavoro e per spese varie (mediche, farmaceutiche, universitarie, etc.).

[2] Art. 53 della Costituzione.

[3] Questo dato non include le partite Iva sottoposte al regime fiscale dei minimi che, ricordiamo, non versano l’Irpef.


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La guerra dei droni: Pechino arma Mosca con tecnologia made in China

Neutralità solo sulla carta. Mentre ufficialmente Pechino si dichiara estranea al conflitto in Ucraina, nei fatti la Cina rappresenta la principale arteria tecnologica che alimenta la macchina bellica di Mosca. Motori, microchip, leghe speciali, fibre di carbonio e sistemi ottici: sono oltre 97 i fornitori cinesi che inviano componenti essenziali alle fabbriche russe di droni, destinati a martellare le città e le infrastrutture ucraine.

Secondo stime raccolte dall’intelligence di Kiev e rilanciate dal Telegraph, la Russia ha speso almeno 55 milioni di dollari tra il 2023 e il 2024 per bombardare l’Ucraina con centinaia di droni kamikaze. Denaro che, attraverso società statali e zone economiche speciali come Alabuga, nel Tatarstan, si trasforma in contratti milionari per le aziende di Xi Jinping.

L’arsenale dei droni

Il piano di Mosca è ambizioso: produrre entro fine anno due milioni di droni FPV (a pilotaggio remoto con visuale diretta), oltre a 30mila velivoli a lungo raggio e altrettanti “esca”, utilizzati per confondere i radar ucraini. In questo schema, i componenti cinesi sono insostituibili. Non è raro che tra i rottami di droni abbattuti compaiano parti con etichette e marchi in caratteri mandarini.

Il patto strategico sino-russo

La cooperazione tra Russia e Cina non è nuova, ma ha assunto una nuova forma dopo il 2014, con l’annessione della Crimea e l’espulsione di Mosca dal mercato militare-industriale occidentale. Se prima era la Russia a fornire armi a Pechino, oggi i ruoli si sono ribaltati: la Cina garantisce tecnologia, materiali e componentistica, mentre la Russia apre le porte alle proprie conoscenze più avanzate su missili, difesa aerea e guerra elettronica.

Il risultato è una partnership di convenienza: Mosca ottiene l’ossigeno tecnologico per sostenere l’offensiva, Pechino accede a know-how strategico e, nel frattempo, inonda il mercato russo con automobili, elettronica e beni di consumo.

Il lato economico

Il legame tra i due Paesi non si misura solo in termini militari. Nel 2024, il commercio bilaterale ha toccato la cifra record di 280 miliardi di dollari, segno di un’integrazione economica che va ben oltre le necessità belliche. La Cina, inoltre, continua ad acquistare petrolio russo a prezzi di favore, consolidando una relazione che intreccia pragmatismo e ideologia.

Neutralità apparente, interessi concreti

Se Xi Jinping evita accuratamente di inviare truppe o forniture militari dirette – per non provocare un confronto aperto con l’Occidente – l’evidenza sul terreno racconta altro. Kiev ha denunciato la presenza di cittadini cinesi arruolati tra le fila russe e ha documentato l’uso diffuso di equipaggiamenti di fabbricazione cinese.

Gli analisti sottolineano che Pechino sosterrà l’alleanza finché le converrà. Quando l’esercito cinese avrà acquisito abbastanza tecnologia da sviluppare in autonomia armi avanzate – in particolare missili, sottomarini e sistemi di guerra elettronica – non è escluso che riveda i termini del rapporto con Mosca.

Un messaggio anche per l’Occidente

La recente parata militare a Pechino, con Putin e Xi fianco a fianco, non è stata solo una dimostrazione di forza rivolta all’Occidente. È stata anche la conferma che l’asse tra i due leader regge su interessi concreti: la sopravvivenza militare della Russia e l’ascesa strategica della Cina.


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